martedì 21 giugno 2011

Il Giamburrasca della panchina...Identikit del nuovo Mister del SAVONA

Il Giamburrasca della panchina
Ninni Corda e la sindrome di Mou




Ha una faccia da schiaffi, ma lo considera un complimento. «A qualcuno sono antipatico? Meglio: chi piace a tutti non ha personalità». Lui, magari, ne ha un po' troppa. Condita con un pizzico di presunzione. E una spruzzata di inevitabile narcisismo. «In Sardegna nessun allenatore ha vinto quanto me». Sin dall'esordio. «Ho iniziato a 17 anni con la squadra giovanile dei Salesiani, a Nuoro: prendeva gol a vagonate e con me in panchina è arrivata prima in campionato».
Nella bisteccheria a due passi da piazza Yenne, il volume esagerato di una tv appesa al soffitto come un lampadario copre quello del traffico di Cagliari. E Ninni Corda alza la voce per rincarare la dose. «Su cento partite giocate da professionista, ne ho perso solo sette». Più altre tre, le ultime, in quarta serie, col Tavolara. Prima di andarsene. E sbattere la porta in faccia a chi voleva trattarlo come uno zerbino, imponendogli questo o quel giocatore. «L'allenatore è diventato l'anello debole del pallone: non conta più niente». O quasi. «Il calcio italiano è la fotocopia annerita di un paese dove vedo troppi maggiordomi. Gente che pensa di salvare il posto di lavoro dicendo sempre sì a chi gli passa lo stipendio, in campo e nella vita». I lecca-lecca del potere. «Per uscire dal coro ci vuole coraggio e un po' di incoscienza. Anche nel mondo del pallone. Ma sono sempre stato un trasgressore. Odio i moralisti, i presidenti modello grillo parlante, quelli che sanno tutto loro e vogliono importi le scelte anche se di calcio non capiscono nulla». Quelli che hanno un solo obiettivo, costi quel che costi. «Vincere, vincere subito o sei un fallito. Della qualità del gioco, del lavoro quotidiano, della professionalità, dei valori non frega più niente a nessuno. Se perdi ti schiacciano, dopo averti presentato come un santone. E, magari, il tuo lavoro, i tuoi meriti se li prende chi arriva dopo di te, anche se vale la metà». E sarà condannato a fare la stessa fine se non vince. Se non vince subito.
Il suono di un telefonino, abbandonato sulla tovaglia gialla e troppo corta di un tavolino trasformato per un'ora in confessionale, serve solo a prender fiato. Prima di ripartire in apnea dai sogni di un allenatore, «condannato alla panchina sin da quando ero un bambino». Imbranato almeno quanto incapace anche di colpire con i piedi un pallone. «Perché per diventare fantini non bisogna per forza essere prima cavalli». Ma, sotto sotto, anche la critica più feroce può nascondere un'autostima grande così. Per un portatore sano di quella malattia congenita che nel pianeta calcio chiamano sindrome di Mourinho, l'ex tecnico dell'Inter, famoso per aver sparso in mezzo mondo vittorie, veleni e polemiche. Equamente distribuiti in dosi massicce con uso sapiente di parole e microfoni in tv. «Umili e modeste sono solo le pecore: se sei un vincente lo sai e basta». La teoria dei numeri primi si spinge anche oltre. «Non guardo in faccia nessuno, chi cerca di provocarmi fa danni. Non ho peli sulla lingua e per questo mi dicono che ho un carattere molto simile a quello di Mourinho». Anche se ai libri di Fernando Pessoa preferisce quelli di Beppe Severgnini. L'ultimo. «Leggendo "Berlusconi e la pancia degli italiani " mi son fatto l'idea di un paese che, purtroppo o per fortuna, vive alla giornata, se la gode e, sempre più spesso, non rispetta le regole. Anche perché la giustizia è lenta». Si parla di Corda in casa dell'impiccato. Di chi ha fatto cento giorni agli arresti domiciliari perché accusato due anni fa, come titolare di una ditta di revisioni d'auto, di aver falsificato i certificati rilasciati dalle officine di Nuoro e Dorgali. «Aspetto ancora il processo». E ricorda quei cento giorni lunghi come mille partite. «Poi, finalmente mi hanno concesso la libertà con obbligo di dimora. E sono uscito di casa appena in tempo per veder nascere mia figlia Beatrice: era in ritardo di una settimana, forse perché voleva anche me in ospedale».
Il viso si piega in un sorriso strappato alla vita privata. Il resto è calcio, non sempre facile. «Quando ero sotto inchiesta, per andare in trasferta con la squadra ogni settimana dovevo ottenere il permesso col nulla osta del giudice di sorveglianza. Un'altra umiliazione lunga quasi tre mesi». Amplificata tra realtà e leggende metropolitane costruite attorno a un allenatore senza briglie. A un uomo scomodo. «Figlio di due sindaci della stessa città dove son nato». Fatto più unico che raro. «I miei genitori sono Martino Corda e Simonetta Murru, socialisti ai tempi di Craxi». Quattro anni divisi in parti uguali alla guida della Giunta comunale di Nuoro, tra gli anni Ottanta e Novanta, prima di Tangentopoli. «Ma di politica non capisco nulla».
Di calcio, invece, sì. E l'autostima, rafforzata da un lungo elenco di vittorie e promozioni, diventa il vero punto di forza di un tecnico che non ama i compromessi. «Una soluzione in campo la trovo sempre: nella vita è tutto più difficile». Magari c'è un punto d'incontro. «Se vinci la paura di prendere una decisione, hai già in tasca il settanta per cento del risultato finale: puoi battere il tuo avversario, chiunque sia». Dio, fato o sfortuna non fanno parte dei suoi attrezzi da lavoro perché il credo di Ninni Corda è un altro. «Un palo è sempre un tiro sbagliato». Come predicava Arrigo Sacchi, santone pluridecorato del calcio moderno. «E se di pali ne prendi cinque è ancora solo colpa tua». Lo dice con convinzione: quella di chi non lascia nulla al caso. La faccia, adesso, si piega in una smorfia che lascia pochi dubbi. Perché occhi verdi e barba di due giorni diventano improvvisamente l'evidenziatore di una filosofia di vita. «Vengo dalla gavetta ma non ho mai tradito il mio modo di pensare per fare carriera. Ho rifiutato 250mila euro per allenare una squadra della serie A cinese». Punta molto più in alto. «Russia, Spagna, Inghilterra, Francia. Diventare come Mourinho non è facile, ma ci voglio provare».
Con metodi non sempre ortodossi. «Pur di dare uno scossone all'Alghero che perdeva 2 a 0 con la Villacidrese, ho mandato l'arbitro a quel paese: mi ha espulso, ma alla fine la mia squadra ha vinto 3 a 2». E lui si è preso cinque giornate di squalifica. «Perché il fine giustifica i mezzi». Ma, con Machiavelli in panchina, cartellini rossi ed espulsioni sono diventati la regola con un'unica eccezione. «Quando ho allenato l'Ischia per tre mesi nel campionato di Eccellenza». Era furioso con l'arbitro. «Ho dato un calcio al pallone e ho beccato in faccia il guardalinee senza volerlo perché ho i piedi fucilati». Fuci che? «Fucilati, non sono capace di colpire un elefante addormentato a un metro da me». Ma un guardalinee sì. «È crollato a terra e mi son detto " Ninni, qui ti danno un anno di squalifica "». Graziato. «L'arbitro si è avvicinato e mi ha detto " alla prossima la mando via , quasi non volevo crederci».
Da quel giorno «ho un ottimo rapporto col novanta per cento dei direttori di gara». Ma è l'altro dieci per cento «che mi frega» e che ha reso Corda simile a Mourinho per numero di espulsioni, polemiche, veleni e anche modo di trattare i giocatori. «Non sopporto chi butta il pallone in fallo laterale quando un avversario è a terra, infortunato. Per questo c'è l'arbitro: se non interviene lui a fermare il gioco, bisogna andare avanti, segnare anche con l'uomo in più». Lo dice Fabio Capello, il commissario tecnico della nazionale inglese, abituato a giudicare un calciatore non per quello che è ma per quello che fa. «Ed è la prima cosa che insegno ai miei giocatori: non ho preclusioni, manderei in campo mille cafoni come Cassano e me li terrei ben stretti pur senza la mia stima: basta che mi facciano vincere una partita. Il calcio è una giungla: in campo ci si picchia come fabbri, ma fuori poi finisce tutto, amici come prima». Lo dice Ninni Corda, faccia da schiaffi e personalità da vendere: il Giamburrasca della panchina.

Fonte Unione Sarda

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